Il sistema dei voucher si sta diffondendo sempre di più in Italia, ma non nell’agricoltura: sul totale dei voucher venduti nell’ultimo anno soltanto l’1,9% è nel settore agricolo.
Il sistema dei voucher o “buoni lavoro” è la modalità oggi più diffusa in Italia per remunerare il cosiddetto “lavoro accessorio“, cioè le attività lavorative saltuarie e non riconducibili alle normali e tradizionali tipologie contrattuali. Il meccanismo è molto semplice: una persona presta lavoro saltuariamente per un committente (imprenditore, commerciante), e viene da questi remunerato in voucher. Ogni voucher ha un valore di 10 euro (che è il limite minimo di pagamento per un’ora di lavoro), e si divide in 2,50 euro di tasse (contributi previdenziali INPS e copertura assicurativa INAIL) e 7,50 di compenso al lavoratore, che non può superare presso un solo committente la cifra di 2.693 euro lordi annui di voucher percepiti (2020 euro netti) e presso tutti i committenti da cui lavora i 9.333 euro lordi annui complessivi (7.000 euro netti). I voucher sono stati introdotti in Italia nel 2008, per combattere il lavoro “in nero” e con una particolare attenzione al settore agricolo, che è molto legato a fattori di stagionalità (periodo del raccolto, andamento climatico), e quindi può beneficiare più di altri settore di uno strumento snello e poco impegnativo.
Eppure è proprio nel settore agricolo che i voucher non hanno avuto l’escalation che ci si aspettava. Nel 2015 in Italia c’è stato un vero e proprio boom nell’utilizzo dei voucher: se nel 2008 (anno di introduzione del nuovo sistema) erano stati venduti 500.000 voucher, nel 2010 sono stati venduti 10 milioni e nel 2015 ne sono stati venduti 115 milioni, con un incremento del 66% rispetto al 2014. Ci sono stati anche molti abusi nel meccanismo dei voucher, che per esempio in alcuni casi è servito non per sostituire ma per mascherare un rapporto di lavoro in nero (il committente acquista i voucher, e li utilizza solo se ci sono controlli di ispettori e carabinieri). Fenomeni – questi – che peraltro tenderanno a sparire a seguito delle nuove regole introdotte dal Governo Renzi, che obbligano il datore di lavoro a comunicare un’ora prima dell’inizio della prestazione lavorativa i dati anagrafici e il codice fiscale del lavoratore (oltre ovviamente al luogo di svolgimento del lavoro), da inviare per posta elettronica o sms alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro (chi non lo fa incappa in sanzioni amministrative che vanno dai 400 ai 2.400 euro).
Ma il problema non si pone più di tanto nel settore agricolo: sui 115 milioni di voucher venduti in Italia nel 2015, quelli utilizzati in agricoltura sono 2,2 milioni, pari all’1,9% del totale (dati Coldiretti). Per incentivare l’uso dei voucher in agricoltura è stata introdotta una modifica che riguarda il solo settore agricolo: non c’è il limite per committente di 2020 euro netti all’anno ma soltanto il limite di 7.000 euro netti complessivi all’anno, eventualmente riconducibili anche ad un solo committente. Per l’imprenditore agricolo è però possibile utilizzare i voucher soltaano entro sette giorni (prima erano trenta).
Secondo la Coldiretti i dati dimostrano in maniera inequivocabile che “nel settore agricolo il sistema dei voucher non ha destrutturato il mercato del lavoro, l’ha completato. Anche i dati occupazionali riferiti al 2015 dimostrano un aumento del 2,2% delle unità di lavoro nel settore agricolo, risultato dell’incremento sia delle unità dipendenti (+2,8%) che di quelle indipendenti (+1,9%), nonostante la crisi economica”.
Pingback: Coldiretti: 'importante mantenere i voucher in agricoltura' - Universofood
Pingback: Abolizione dei voucher. L'impatto sull'agricoltura - Universofood