Nel settore food & beverage esistono in Italia realtà imprenditoriali solide ed importanti che, oltre a commercializzare alimenti, sono anche produttori come Antico Eremo, che lo è fin dal 1978.
Eppure queste rappresentano una percentuale minima in confronto alla maggior parte dei produttori che sono frammentati, talvolta quasi isolati, in piccole e medie imprese. Ma anche in confronto a quelle PMI che, scontrandosi con le enormi difficoltà che citeremo più avanti, sono così disincentivate a produrre da abbandonare completamente questa parte di attività limitandosi al solo commercio, pur avendo terreni e materia prima per poterlo fare. Ciò si ripercuote su vari indicatori del benessere di un Paese, tra cui il PIL e le statistiche sull’export.
Abbiamo di recente visitato l’azienda Antico Eremo e grazie a questa visita abbiamo approfondito un ambito, quella della produttività, che rivela molte più criticità di quante pensassimo.
Antico Eremo è un caso virtuoso e confrontandoci con gli imprenditori ci siamo resi conto di quanto questo virtuosismo sia frutto di enormi sforzi, di grandi atti di coraggio, di determinazione e costanza nei decenni, non certo soltanto una naturale conseguenza del possedere materie prime di qualità.
Scopriamo qual è il gap tra qualità della materia prima e produttività. E come mai le aziende italiane si scontrano con grandi difficoltà quando si tratta di esportazioni. Dati alla mano.
Il gap tra qualità dei prodotti, produttività ed esportazioni
Nonostante l’Italia sia globalmente riconosciuta come un Paese dalle numerose e variegate eccellenze del food & beverage, essa presenta considerevoli criticità quando si tratta di produzione ed export, e lo provano i dati. Come emerge dai rapporti su L’industria alimentare italiana realizzati da Nomisma, infatti, l’Italia si posiziona da diversi anni solo al quinto posto tra i Paesi che esportano prodotti alimentari.
Un dato più positivo che negativo, si potrebbe pensare. Eppure quella quinta posizione stupisce molto se è messa in relazione ad un’altra occupata dal nostro Bel Paese da altrettanti anni: siamo primi per numero di prodotti agroalimentari a denominazione di origine e a indicazione geografica riconosciuti dall’Europa. Il prestigioso primato vede l’Italia proprietaria del 27% dei prodotti a denominazione DOP, IG, IGP e STG presenti in tutto il mondo. Una percentuale che a dicembre 2020 corrispondeva a 838 prodotti (Analisi del Rapporto Ismea-Qualivita sulle produzioni agroalimentari e vinicole).
L’apprezzamento internazionale per i prodotti italiani è un dato di fatto. Basti pensare che, secondo i dati Istat 2020 sull’Export Food italiano che abbiamo riportato a inizio anno, la pandemia non ha frenato le esportazioni. Anzi lo scorso anno, nonostante il periodo incerto e catastrofico, sono aumentate le richieste dall’estero di alcuni prodotti – in primis pasta con un +16%, conserve di pomodoro +17%, olio di oliva insieme a frutta e verdura +5%.
I dati ci dicono che siamo di fronte ad una contraddizione, ad uno scarto troppo ampio tra il potenziale che hanno le aziende di settore ed il loro sviluppo economico.
A cosa è dovuto questo divario tra la qualità dei prodotti e la loro distribuzione anche oltre confine? Dovrebbe esserci una stretta correlazione, ma così non è.
Perché non siamo capaci di produrre quantità sufficienti a soddisfare la domanda di mercato proveniente da tutto il mondo? Ma soprattutto perché questo gap persiste da anni, se non da decenni?
I fattori che frenano la produttività e le esportazioni
Per gli esperti di settore, le istituzioni coinvolte e in particolar modo per le piccole e medie imprese che vivono quotidianamente le difficoltà di produzione ed esportazione, le motivazioni del gap sono oramai note e ben definite, e vanno:
- dalla frammentazione della produttività in tanti, troppi, piccoli produttori alle logiche di mercato dettate dalle grandi aziende della GDO;
- dall’assenza di un sistema meritocratico alla scarsa circolazione delle informazioni che potrebbero aiutare le aziende;
- dalla carenza di personale specializzato alla carenza di strumentazioni e macchinari adeguati quando il personale c’è;
- dall’inadeguatezza dei sostegni alle imprese, troppo spesso intesi come aiuti assistenzialisti, all’assenza di provvedimenti concreti che le sosterrebbero in fase produttiva e con le esportazioni;
- dalla complessa e frenante burocrazia ai limiti di una normativa che non tutela le aziende da gravi ostacoli alla propria crescita come la contraffazione, il lavoro nero, le aste truccate e tutto ciò che di illegale ricade sulle imprese senza che queste abbiano gli strumenti per tutelarsi.
Quali soluzioni esistono per superare i fattori critici
Come possiamo notare, quelli sopra citati sono per lo più dei fattori esterni alle aziende e dunque fuori dal perimetro di responsabilità entro il quale esse possono incidere sensibilmente e concretamente sul proprio destino, soprattutto quello finanziario.
Non si può fare niente dunque? Non proprio.
Le aziende devono continuare a cercare soluzioni e ad individuare quegli spazi d’azione in cui contrastare i fattori esterni oppure per evitare proprio che questi li raggiungano.
Antico Eremo, l’azienda bresciana che abbiamo citato a inizio articolo, può essere guardata come esempio positivo perché è riuscita a svincolarsi da molti limiti con le proprie forze, partendo dall’essere una piccola azienda come tante fino ad essere l’spa che è oggi: capace di produrre, di commercializzare, di fornire servizi ad altre aziende epermettendo loro di crescere a costi sostenibili.
Anzitutto chi desidera produrre e non ha gli strumenti per farlo può provare a perseguire due strade:
– aggregarsi ad altri produttori unendo le forze e condividendo strumenti e macchinari,
– affidarsi a grandi aziende come Antico Eremo, e a queste richiedere i servizi che gli permetterebbero non solo di confezionare i propri prodotti, ma anche di riceve servizi consulenziali per la promozione ed il marketing.
Altre soluzioni immediatamente praticabili sono:
– ricercare informazioni relative a sostegni e aiuti da parte delle Istituzioni;
– investire in innovazione, compresa la digitalizzazione a tutti i livelli: da quella che agevola il lavoro nei campi a quella che permette di tracciare e monitorare la distribuzione;
– non cedere mai ad offerte che escono fuori dai parametri dell’etica e della legalità;
– denunciare situazioni anomale o attori dediti alla contraffazione dei propri prodotti;
– affidarsi sempre a professionisti seri, legali e commercialisti, che possano aiutare un’azienda con le questioni burocratiche: solo apparentemente risulteranno più cari, ma nel lungo periodo un bravo professionista porta le aziende a risparmiare;
– promuovere la propria attività: anche i migliori prodotti resteranno in magazzino se nessuno sa che esistono;
– ultimo ma non meno importante, mantenere un’attitudine positiva e proattiva, credere in ciò che si sta facendo e proseguire per la propria strada sicuri dei propri prodotti.
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