Con la diciottesima conferenza sui cambiamenti climatici, la conferenza di Doha in Qatar (26 novembre-7 dicembre 2012), parte la seconda fase del Protocollo di Kyoto, il cosiddetto “Kyoto 2”. Una fase in cui sarà sempre più centrale il ruolo dell’agricoltura, settore decisivo nella lotta contro il riscaldamento globale.
Il Protocollo di Kyoto (qui il testo originale inglese, qui il testo tradotto in italiano), il grande trattato internazionale sul riscaldamento globale, è stato firmato nel 1997 ed è entrato in vigore nel 2005. Il trattato prevedeva di ridurre a livello globale almeno del 5% (8% a livello di Unione Europea, 6,5% per l’Italia) le emissioni di biossido di carbonio CO2 (il principale gas serra, cioè la principale emissione inquinante responsabile dell’innalzamento delle temperature) rispetto alle emissioni del 1990 nel periodo 2008-2012. Gli obiettivi potevano essere raggiunti da ogni Paese o attraverso un concreto taglio delle emissioni secondo gli standard richiesti, o – in alternativa – usufruendo di meccanismi flessibili che consentivano di compensare un eventuale taglio delle emissioni nel proprio Paese che fosse stato al di sotto della quota richiesta. Questi meccanismi flessibili sono, precisamente: “Clean Development Mechanism”, cioè realizzazione di progetti ambientali a impatto positivo sul piano ecologico ed economico in uno o più Paesi in via di sviluppo); “Joint Implementation” (realizzazione di progetti per ridurre le emissioni di ga serra in un altro Paese dello stesso gruppo): “Emission Trading” (mercato dei crediti di emissione, per cui ad esempio un Paese che non ha tagliato le emissioni secondo lo standard richiesto può compensare acquistando “crediti” da un Paese che è al di sopra degli obiettivi posti da Kyoto); “Sinks” (ottenimento di “crediti” attraverso attività di riforestazione e rivegetazione).
In attesa di conoscere i dati completi sull’andamento delle emissioni nel periodo 2008-2012, e quindi sapere se e in che misura il Protocollo di Kyoto è stato rispettato (il periodo fissato dal Protocollo è finito da pochissimo, precisamente il 31 dicembre 2012), la conferenza di Doha del 26 novembre-7 dicembre 2012 ha dato il via alla seconda fase della lotta al riscaldamento globale, il cosiddetto “Kyoto2”, che prevede una riduzione delle emissioni a una quota su cui però al momento non c’è ancora un’intesa (si parla per l’entrata in vigore del 2015, e per la Ue dovremmo essere su un obiettivo del 20% di emissioni in meno in cinque anni; l’obiettivo ultimo, in ogni caso, è riuscire a mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2 °C ).
Un problema non da poco riguarda il numero e l’entità dei Paesi aderenti. Secondo le regole Kyoto sarebbe entrato in vigore quando fosse stato ratificato da almeno 55 nazioni e se queste nazioni fossero state nel loro complesso responsabili della produzione di almeno il 55% delle emissioni globali. Il trattato ha quindi potuto entrare in vigore soltanto sette anni e due mesi dopo la firma, quando questa soglia minima è stata raggiunta con la ratifica da parte della Russia. Di fatto Kyoto è stato sottoscritto da 141 nazioni, ma con alcune defezioni decisive, in particolare gli Stati Uniti (Paese non aderente) e la Cina (Paese formalmente aderente ma esonerato dagli obblighi fissati dal Protocollo). L’assenza di questi Paesi è gravissima, se si pensa che da soli gli stati Uniti sono responsabili di circa il 36% delle emissioni globali di biossido di carbonio, e gli Stati Uniti e la Cina insieme producono oltre la metà delle emissioni globali di gas serra. E la situazione è ulteriormente peggiorata alla conferenza di Doha: al momento a Kyoto2 non hanno aderito né Stati Uniti e Cina, né altri Paesi forti emettitori come India, Russia, Sud Africa, Brasile, Giappone e Canada. Per questo sia il WWF che Greenpeace al momento hanno parlato di un “mezzo fallimento” e il Ministro dell’Ambiente italiano Corrado Clini ha dichiarato: “molti hanno messo i cambiamenti climatici in basso nell’agenda, con la scusa della crisi, ma è un errore, perché i disastri causati dai cambiamenti climatici mettono a rischio anche l’economia, quindi i due discorsi vanno portati avanti assieme. Peraltro si sarebbe potuto ottenere molto di più se gli Usa, dopo la rielezione di Obama, avessero preso degli impegni, ma ci dicono che sono bloccati dal Congresso a maggioranza repubblicana”.
In attesa che Kyoto2 riesca a decollare (d’altronde anche per Kyoto1 c’erano voluti degli anni prima di partire), un punto è emerso con chiarezza nella conferenza di Doha: il ruolo sempre più centrale che deve assumere l’agricoltura nella lotta al riscaldamento globale. Il settore agricolo è infatti al tempo stesso sia importante emettitore di gas serra sia possibile grimaldello per l’assorbimento degli stessi.
I principali gas serra sono sei: biossido di carbonio (CO2); metano (CH4); protossido di azoto (N2O); idrofluorocarburi (HFC); perfluorocarburi (PFC); esafluoro di zolfo (SF6). Generalmente si considera soltanto il biossido di carbonio (CO2), sulle cui emissioni l’agricoltura non ha praticamente alcun ruolo. L’agricoltura è però una fonte importante di due potenti gas serra: il protossido di azoto (N2O) e il metano (CH4). Il protossido d’azoto viene rilasciato nell’atmosfera dai terreni agricoli specialmente a causa della trasformazione microbica dei fertilizzanti azotati nel suolo, e le emissioni di protossido d’azoto rappresentano più della metà delle emissioni agricole totali. Le emissioni di metano derivano per lo più dai processi di digestione dei ruminanti, (in particolare bovini e ovini. Le emissioni di gas serra nel settore agricolo rappresentano nel complesso circa il 9% delle emissioni totali di gas serra dell’Unione Europea (fonte: C o m m i s s i o n e E u r o p e a D i r e z i o n e G e n e r a l e d e l l ’A g r i c o l t u r a e d e l l o S v i l u p p o r u r a l e). Per diminuire le emissioni di gas serra nell’agricoltura ci sono due strade: cambiare e migliorare le tecniche di coltivazione, riducendo in particolare l’uso di fertilizzanti nitrogeni; diminuire la quantità di bestiame allevato (il che implica diversificare la nostra dieta riducendo il consumo di carne, punto su cui si può essere in accordo con gli animalisti senza bisogno di considerare immorale l’uccisione di animali tout court)
Il settore agricolo è poi potenzialmente una risorsa fondamentale per combattere attivamente l’emissione di gas serra attraverso una gestione e riqualificazione in senso ecologico di campi e terreni. Prima di tutto le piante assorbono il biossido di carbonio dall’atmosfera, dunque servono operazioni di riforestazione e rivegetazione di parte delle aree agricole. Inoltre: oggi è possibile la conversione dei rifiuti animali in biogas (attraverso l’installazione di impianti per la digestione anaerobica dell’animale si riducono le emissioni e i volumi di melma e letame: attraverso un digestore anaerobico il biogas emesso dall’animale può essere convertito in calore e quindi in elettricità, riducendo le emissioni gassose dal materiale di alimentazione e al tempo stesso producendo energia rinnovabile; in generale: occorre incentivare le bio-energie prodotte dalle biomasse agricole per ridurre altre fonti intensive di emissioni). Un’altra strada (i terreni agricoli hanno ampie riserve di carbonio che contribuiscono a ridurre l’anidride carbonica nell’atmosfera) è l’aumento della funzione di assorbimento dei terreni agricoli (quantità significative di anidride carbonica possono essere tolte dall’atmosfera e accumulate nei terreni tramite alcune pratiche di coltivazione, come: coltivazione biologica, sistemi di non o ridotto dissodamento che evitano o riducono gli interventi nel suolo; coltivazioni proteiche in aumento; mantenimento dei pascoli permanenti e conversione dei terreni arabili in pascolo).
La nuova frontiera della lotta ai gas serra è dunque il cosiddetto settore LULUCF (Land Use, Land Use Change and Forestry): gestione forestale, gestione delle terre coltivate, gestione dei pascoli, rivegetazione. Un settore già menzionato nel Kyoto1 (articolo 3.4), ma che è stato trascurato negli ultimi anni e che dalla conferenza di Doha emerge come settore strategico per il Kyoto2. Nel frattempo la nuova PAC (Politica Agricola Comune), tra l’altro contestatissima per i forti tagli all’agricoltura italiana, prevede tra le altre cose il cosiddetto “Greening”: in pratica si rendono obbligatorie per tutti gli agricoltori europei alcune pratiche ecologiche, e in particolare diversificare le coltivazioni per un minimo di tre colture, prevedere pascoli permanenti, dedicare il 7% del terreno a fini ecologici (anche con misure non direttamente produttive, come – per esempio – piantare alberi per contrastare l’erosione dei suoli); chi non rispetta queste misure di sostenibilità ecologica perde il 30% dei finanziamenti e può incorrere in ulteriori sanzioni aggiuntive.
(Luigi Torriani)