C’è un prodotto alimentare che anche in tempi di crisi in Italia tiene botta molto bene. Troppo bene, secondo l’allarme lanciato in un’intervista all’Ansa dal professor Francesco Cappuccio della Warwick University. Nel nostro Paese i consumi di sale sono da record, con quantità giornaliere pro capite che arrivano in media a oltre dieci volte le dosi ottimali.
Bene per i produttori e i distributori di sale. Male, malissimo per un popolo – il nostro – che è da sempre presentato come un modello dal punto di vista gastronomico e dietetico.
Secondo i dati forniti dalla Warwick Medical School e ripresi dalla rivista scientifica British Medical Journal l’Italia è tra i primatisti mondiali nel consumo di sale, con una media di 10,8 grammi al giorno (12 gli uomini e 10 le donne). In pratica ogni giorno ingurgitiamo l’equivalente di due cucchiaini da caffè di sale. Il doppio delle dosi massime raccomandate, e oltre dieci volte le dosi considerate ottimali.
Una dieta da cavallo che proviene per il 20% direttamente dal condimento in sale vero e proprio e per l’80% indirettamente dai cibi. Soprattutto prodotti in scatola, snack e patatine. Prodotti che il professor Cappuccio dal punto di vista della salute boccia senza mezzi termini. “Il consumatore è soddisfatto” da simili “intensità” nei sapori, “ne trae piacere”, ha spiegato Cappuccio, “e per questo vanno così bene nelle vendite”. Ma si tratta di prodotti “carichi di sale anche se non ce ne accorgiamo”. Inoltre simili alimenti creano una sorta di “dipendenza gastronomica” e sviluppano la sete, che “spesso viene placata con bibite non proprio salutiste”.
Altri prodotti sotto accusa sono i salumi, gli insaccati, gli stuzzichini da aperitivo, i formaggi stagionati e i dadi da brodo. Oltre alla cucina cinese in generale, che tende a fare un uso smodato di glutammato.
Le implicazioni di un tale regime alimentare si possono ben indovinare in queste parole del professor Cappuccio: “la riduzione collettiva di tre grammi al giorno di sale permetterebbe di prevenire ottomila morti per ictus e fino a dodicimila per infarto in un anno”. D’altronde tenere a freno il consumo di sale è ormai uno dei principali obiettivi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che entro il 2025 punta a scendere perlomeno sotto i 5 grammi a testa nei Paesi occidentali, e se possibile sotto gli 1-2 grammi giornalieri.
Un obiettivo che alcuni ritengono irrealistico e la cui implementazione necessiterebbe di una rivoluzione su un doppio binario. Il primo è l’educazione dei consumatori, che secondo il presidente della Società Italiana di Scienza dell’Alimentazione Pietro Migliaccio dovrebbe passare anzitutto dall’ “eliminazione della saliera a tavola”, fino alla “drastica riduzione degli alimenti che contengono sodio o sali di sodio”. Ma tempo fa perfino Gianfranco Vissani ebbe a dire che una pasta cotta “senza sale nell’acqua” può venire ugualmente “buona”. Il secondo binario, forse ancor più complicato del primo per i forti interessi che sono in gioco, si situa a monte della filiera alimentare. Si tratta – nelle parole di Francesco Cappuccio – di avviare una “riformulazione graduale e continua dei contenuti salini negli alimenti in collaborazione con l’industria alimentare e anche con regole precise imposte all’industria dai governi”.
Una riformulazione verso il basso dei contenuti salini degli alimenti in commercio che dovrebbe diminuire nel consumatore la dipendenza dai cibi fortemente salati che in genere sviluppiamo fin dall’infanzia e che impedirebbe tutta una serie di truffe, dal sale utilizzato in quantità smodate per coprire la cattiva qualità di un alimento al sale aggiunto in eccesso alle carni per fare assorbire l’acqua e quindi aumentare il peso (e il costo) dell’alimento.
(Luigi Torriani)