La private label è un mercato destinato a mantenere la crescita registrata negli ultimi anni. I consumatori acquistano i prodotti che portano il marchio del supermercato perché li ritengono affidabili sul piano qualitativo e costano meno. Le industrie alimentari vedono come fumo negli occhi la “marca privata” (del supermercato, in inglese private label).
Dovrebbero invece cambiare approccio e cogliere le opportunità che questo canale può dare se si cercano sbocchi all’estero: produrre per una marca privata può facilitare l’ingresso nella grande distribuzione di un altro Paese e preparare il terreno per un eventuale successivo sbarco della propria marca industriale.
E’ quanto emerso da un incontro svoltosi nella Sala dei 300 a Cibus, durante il quale Nielsen ha presentato uno studio su private label e consumi in numerosi Paesi. Il dibattito è stato animato da Gianpiero Lugli, docente dell’Università di Parma. Il rapporto è stato presentato da Romolo De Camillis di The Nielsen Company. Infine Lugli ha moderato una tavola rotonda con rappresentanti di Gdo Week (rivista specializzata) Carrefour, Crai, Delhaize, Le Lion, Axfood e Green Seed.
CHI COMPRA I PRODOTTI DELLA “MARCA PRIVATA”? La risposta è “tutti”, almeno per quanto riguarda l’Europa occidentale. In realtà, il fenomeno è articolato. L’acquirente-tipo della private label fa parte di una famiglia di almeno 3 persone, con buona disponibilità di reddito (fascia media e alta) e in media è giovane. La ricerca conferma così che le potenzialità di espansione di questo mercato sono forti, anche in Italia.
Lo dicono anche i numeri sul trend degli ultimi anni. In Europa occidentale (quindi Italia compresa) la private label ha aumentato i volumi dal 31,3% al 37,9% del mercato complessivo fra 2001 e 2008. In termini di valore, se nel 2001 la marca privata rappresentava il 27% del mercato, nel 2008 la percentuale è salita a 31,4. “Per il 2009 ci aspettiamo una crescita di un altro punto percentuale”, dice De Camillis. Se la previsione sarà confermata, sarà smentito chi sostiene che i prodotti di “marca privata” hanno più successo grazie alla crisi.
Da Paese a Paese, poi, la percezione di questi prodotti cambia. I consumatori la associano alla scarsa qualità nei Paesi meno industrializzati; va un po’ meglio in Europa orientale, mentre in Europa occidentale le persone percepiscono la private label come un prodotto comunque di qualità.
I prodotti di marca privata in genere costano meno rispetto ai leader di mercato, ma anche qui il quadro è diversificato: il differenziale è del 25% in America Latina e Asia-Pacifico. La private label costa il 27% in meno dei concorrenti industriali in America del Nord, mentre in Europa occidentale la differenza è del 37%; in Europa orientale, è il 40%.
Per il futuro, in conclusione, la marca privata è destinata a crescere in volumi e giro d’affari, soprattutto nelle zone in cui il differenziale di prezzo è maggiore (ci sono anche studi per singoli prodotti).
LA PRIVATE LABEL COME OPPORTUNITA’ ANZICHE’ COME NEMICO. Il professor Lugli dice in modo chiaro – citando addirittura “L’arte della guerra” di Sun Tzu – che l’industria alimentare “non può più considerare la marca privata solo come una minaccia. E’ venuto il momento di trasformarla in opportunità”. D’altronde, “il fenomeno è inarrestabile” e sempre più articolato. Le catene della grande distribuzione non si limitano più a offrire copie dei prodotti industriali a prezzi concorrenziali (secondo una logica “me too”) ma sviluppano linee proprie e fanno innovazione, in alcuni casi anticipando le industrie.
Per queste ultime, però, tutto questo può essere un aiuto al business. Sì, perché – spiega Lugli – producendo per conto della marca commerciale (copacking) è più facile entrare nella grande distribuzione estera. Una volta nel circuito, si è ben posizionati per un’eventuale entrata con il proprio marchio industriale. In vari Paesi ci sono catene che selezionano private label straniere, purché i relativi punti vendita non siano presenti sul loro mercato. Se ad esempio una catena di supermercati britannica vuole importare prodotti tipici italiani, ad esempio, potrebbe includere direttamente prodotti di una private label del nostro Paese. E’ più sicuro e meno costoso sul piano dell’affidabilità (diversamente, dovrebbe fare ricerche sui fornitori, selezionarli, fare controlli di qualità e sicurezza e così via).
da GazzettadiParma.it